La band
foggiana composta da Luca Rossetti (voce) – Marco Maruotti (chitarra) –
Gianluca Grazioli (synth) – Mimmo Brunetti (basso) e Pasquale Del Grosso
(batteria), Sabato 8 febbraio ’14 presso il Teatro della Società Filarmonico
Drammatica di Macerata, ha partecipato alle Audizioni live della XXV edizione
di Musicultura.
Queste
audizioni, fanno parte di una seconda fase di selezioni poiché la prima (superata
con successo dalla band) era affidata ad una commissione d’ascolto che si è
vista prolungare il proprio lavoro fino agli ultimi sgoccioli del 2013 per l’elevata
quantità e qualità di proposte.
Gli artisti
selezionati, tutti autori di ciò che interpretano, sono stati convocati e così
divisi (24 – 25 -26 -31 Gennaio e 1 - 2 – 7 – 8 – 9 Febbraio) per un totale di
46 proposte da selezionare.
Al termine
delle audizioni, saranno proclamati i 16 finalisti ma solo per 8 di loro, si
apriranno infine le porte dell’Arena Sferisterio di Macerata dove si svolgeranno
le serate conclusive (20 – 21 – 22 Giugno 2014).
Lo
spettacolo è stato trasmesso in streaming e gli artisti sul palco si sono
esibiti rigorosamente dal vivo per la giuria tecnica, quella universitaria e il
pubblico in sala.
Comunicato stampa
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Iintervista agli Shoe’s Killin’ Worm :
Gli Shoe’s Killin’ Worm nascono nel 2004: non sono un gruppo nuovo, ma sanno rinnovarsi; a loro basta cambiare formazione, strumenti, luoghi et voilà: sound diversi che viaggiano sulla stessa linea. Ermetica ed eclettica, la band utilizza come base musicale una fusione di generi, creando un’atmosfera che permette all’ascoltatore di calarsi in un paesaggio immaginifico. Ad impreziosire la loro produzione, poi, ci pensano i testi: parole contate, un forte ermetismo e un grande simbolismo per trattare temi delicati in forme nuove. I componenti Luca Rossetti, Marco Maruotti, Gianluca Grazioli, Mimmo Brunetti e Pasquale Del Grosso non sono alla ricerca di uno stile, perché il loro stile è la ricerca: vogliono sperimentare, modificare, calibrare attentamente suoni e testo. Hanno partecipato a svariati concorsi trovando un buon riscontro di critica e pubblico ed hanno calcato il palco insieme ad alcuni grandi nomi della scena alternative rock italiana. Hanno all’attivo un album, Scatola con vista, e diverse demo. Stanno lavorando al loro prossimo disco. Li intervistiamo subito dopo la loro esibizione, quando ansia e nervosismo lasciano il posto a loquacità e ironia.
Il vostro è un genere molto particolare: unite all’indie rock alcune influenze synth-pop e sfruttate i suoni dell’elettronica per accompagnare un più classico post-rock. Ascoltandovi vengono in mente gruppi che generalmente non si assocerebbero tra loro, come Subsonica e Verdena. Quanto tempo avete impiegato a sviluppare questo sound così originale e come è nato?
Luca: Ci sono delle influenze non italiane che erano nel nostro background prima di fondare il gruppo; sono però influenze che animavano soprattutto gli altri, non me, che vengo invece più da una linea cantautorale. Nel nostro sound si può riscontrare questo paradosso fra sacro e profano, post-rock e generi contaminati con l’elettronica, un po’ sul genere di Bjiork, Portishead e Radiohead, insieme a degli indicatori che sono invece più italiani, come ad esempio il testo; il tutto devia totalmente dalla proposta classica straniera: è proprio il suono della parola, il modo in cui viene pronunciato e si posa sulla musica che modifica il genere di per sé.
Marco:Un genere musicale cantato in inglese cambia automaticamente con un testo in italiano, diventa tutt’altro, e a noi questa cosa piace. Ci piace l’idea che il sound che puoi incontrare in qualsiasi altro posto del mondo si formi su una lingua totalmente diversa - e meno comune dell’inglese. La nostra è una volontà precisa di essere originali pur passando sul solco tracciato da altre esperienze.
Luca: È anche una sfida.
Per ora avete all’attivo due lavori: Scatola con vista, del 2006, e un demo uscito nel 2012. Cos’è cambiato dal primo album al secondo?
Gianluca: È cambiato tutto! Questo perché fondamentalmente Scatola con vista l’hanno creato solo Luca, Marco e un Pentium 3, un computer che dettava loro le linee guida e si impallava quando le cose non gli piacevano; buttato nel primo cassonetto, è stato il primo membro ad essere cacciato dal gruppo (ridono, n.d.r ). Il primo lavoro è nato così: c’erano loro in una stanza che producevano queste canzoni. Ovviamente lo scrivere testi in questa maniera ti porta ad attraversare delle dinamiche che sono totalmente diverse dalle solite: in una casa non puoi ricreare le cose che generalmente si producono con strumenti acustici in sala prove e quindi sei costretto a trovare nuove soluzioni. Questa è stata la linea guida del primo album. Dopodiché il gruppo, con l’aggiunta di altre persone, è diventato più canonico dal punto di vista della strumentazione, con batteria, basso, eccetera. Abbiamo cercato di seguire la stessa filosofia di produzione fatta al computer trasportandola però nell’acustico elettrico. Quindi la demo del 2012 è nata così: trovando soluzioni sia al computer che in sala prove.
Marco: Fra il primo lavoro e quello del 2012 ci sono un’infinità di altre demo, bootleg, autobootleg che abbiamo fatto e prodotto, ma senza diffonderle troppo. Poi abbiamo deciso di cambiare approccio nel 2012, di fare una cosa molto più regolare.
Un gruppo come il vostro, a Musicultura, rappresenta una novità. Il fatto di produrre un tipo di musica originale e di portarlo di fronte ad un pubblico abituato a sentire altro può scatenare reazioni di vario tipo. Quali sono, secondo voi, i vantaggi, e quali gli svantaggi, di presentare un genere innovativo al concorso?
Gianluca: L’importante, secondo me, è comunque creare un’opinione, non risultare indifferenti; se il tuo è un gruppo che fondamentalmente dice cose già dette da altri, anche se suonate benissimo, può non essere molto costruttivo; quindi, ben venga una band che cerca di sperimentare, anche se poi i risultati iniziali possono fare schifo. La storia della musica è piena di sperimentazioni brutte, ma chi le ha compiute non si è lasciato influenzare dalle critiche negative, ha continuato ed è arrivato a fare dei lavori più convincenti. Siamo molto divertiti dall’idea di essere la “pecora nera” di questo concorso. Probabilmente si ricorderanno di noi come di “quelli che hanno fatto quella cosa strana a Musicultura”. A noi comunque è molto piaciuto partecipare al festival.
Marco: A parte il fatto che abbiamo portato dei cestini per raccogliere eventuali ortaggi, che non sono arrivati, abbiamo sempre pensato che non fosse corretto scindere i due rami della composizione, quello cantautorale da quello sperimentale, perché è come voler dare un limite a due cose che invece possono coincidere, e noi tentiamo di farlo. L’idea di fondo è che il cantutorato debba avere una musica poco invasiva per far spiccare il testo, mentre per noi sono necessari la musica e l’arrangiamento per la comprensione di altri livelli testuali: non solo quello che puoi sentire o leggere, ma quello che ogni suono può suggerire e le sfumature che può aggiungere. Da questo punto di vista ci rifacciamo un po’ all’hart rock, al noise, all’elettronica, che tendono a dare un’immagine al suono, così come le parole cercano di dargli un significato. Tentiamo di fare in modo che tutto abbia una sorta di paesaggio sonoro, intorno al quale gravitano le parole che danno senso al testo. Pensavamo fosse il posto giusto per farlo, dato che non sempre è possibile: nei festival indie si dà molta più importanza al suono e a quanto sia alla moda, diciamo; in quelli cantutorali si dà invece molto peso al testo. Qua abbiamo provato a portare un’idea alternativa integrata nelle due cose.
La vostra musica viene definita “onirica”, ma attraverso i testi affrontate anche molti temi delicati: ne “La Nausea”, ad esempio, parlate di una ragazza che rimane incinta in seguito ad una violenza sessuale. Insomma, cos’è che volete fare? Traghettare i vostri ascoltatori verso l’interno della propria coscienza o farli andare a sbattere contro il muro della realtà?
Luca: Secondo me l’obiettivo è riuscire a raggiungere un livello di condivisione con la gente con cui entriamo in contatto quando siamo sul palco: in quel momento riceviamo e diamo. Quindi, il fatto di fondere l’aggressività e la rabbia con la dolcezza permette un susseguirsi di momenti di crescita del rumore nell’impeto con momenti più delicati. Ci sta tutto, perché è come il flusso della vita. È come quando vivi un momento felice a cui può seguire un momento triste. E tutto questo si condivide sul palco.
Marco: È una domanda difficile, sto sudando. Onirico sì, e naturalmente i testi devono seguire anche le suggestioni della musica. Se la musica usa accordi minori e sonorità ombrose, il testo deve seguirla, anche se molte volte nasce dopo: facciamo una sessione di sperimentazione del suono e tutto il resto viene da sé. In base alla sonorità del pezzo viene fuori l’argomento. Quindi sì, a volte, ma non sempre, i testi sono oscuri; risultano anche duri sul piano linguistico, che non sempre risulta molto comprensibile: utilizziamo alcuni termini un po’ complicati e questo dipende da quello che vogliamo dire, perché sono temi delicati che non sempre è bene sviscerare completamente; ma anche dal punto di vista della composizione:le nostre parti vocali, come abbiamo detto prima, sono improntate alle melodie anglofone, e dato che vogliamo evitare di cambiare totalmente sound cambiando lingua, abbiamo molto meno spazio; e in quelle poche parole dobbiamo dire tutto. Prendiamo necessariamente molto dalla lezione dell’ermetismo, cercando di usare poche parole ma pregnanti, ognuna con un significato preciso. Non è come parlare a tavola, ecco.
So che chiedere ad un musicista quale sia il pezzo che preferisce nella sua produzione è come chiedere ad una madre di dire a quale figlio voglia più bene, ma lo farò comunque: qual è il pezzo di cui non vi pentirete mai e perché?
Luca: “La nausea”. È il brano che più riesce a realizzare il connubio di impetuosità musicale e dolcezza. Il testo parla di un argomento duro e grave, ma ad un certo punto è come se tutta la musica volesse accarezzare la vittima di quella violenza. Realizza perfettamente quello che voglio portare e donare sul palco: essere al tempo stesso coinvolgente, interessante e contagiare il pubblico con le mie emozioni.
Gianluca: È una canzone che deve ancora uscire, forse sono legato più che altro al fatto che la suoniamo da poco. Mi è piaciuto molto il lavoro che c’è stato dietro: è stato totalmente avulso, almeno coscientemente, dal cercare di fare un pezzo che avesse delle dinamiche commerciali; abbiamo fatto semplicemente quello che volevamo, sistemando suoni e parole come preferivamo, senza stare a preoccuparci del ritornello o altro. Sono legato a questo pezzo, quindi, perché mi è piaciuto lavorare in questo modo; spero che anche i prossimi brani possano nascere in questa maniera.
fonte articolo http://musicultura-blog.tumblr.com/post/76455688955/intervista-agli-shoes-killin-worm-le-pecore-nere]
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